La gita
collaborazione artistica Chiara Rubes e Bruno Stori
tecnica e luci Erika Borella
Tre personaggi in cerca di vita. Di un varco che li possa gettare al di là della paura . Quella che tutti hanno, ma che sono così bravi a nascondere dietro le maschere delle convenzioni, delle formalità. Dell’essere normali.
Non li sono “normali” i tre personaggi de La Gita, eppure lo sono così tanto. Clown malinconici, simboli di un’umanità tanto vera quanto più mette in campo la propria solitudine, la voglia di cambiare, la goffa e breve felicità di un gioco inatteso che fa sentire più vicini Cesare, il vedovo, stizzoso, rigidissimo, Tecla, la “devorziata”, fatta di idiosincrasie e di sensualità inattese, Romano, lo scapolo, dolce ed inadeguato. Tutti e tre non cercano la gita, la corriera che li dovrebbe portare ad Igea Marina, presso Rimini, per 40mila lire, per se stessa ma per conoscere e ritrovare altri se stessi, con la voglia di ridere e di gettarsi dietro le spalle tutto. Con la voglia tenuta ben chiusa dentro le borse da picnic, di credere ai miracoli, quelli veri, che fanno cambiare la vita qui. “L’atto di partire non da turisti, ma da veri viaggiatori, presuppone che le cose possano cambiare, durante il viaggio o al ritorno. Il viaggio è fare esperienza e quindi conoscere, crescere, diventare grandi, possedere qualcosa, scambiare. Poter essere utile, a se o agli altri” scrivono i tre autori-attori nel diario dello spettacolo.
Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: non c’è altro da vedere, si sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. (Viaggio in Portogallo di J. Saramago).
Lo spettacolo si svolge nell’arco temporale di una giornata, dall’alba al tramonto, su una panchina di una periferia metropolitana che è dappertutto ed in nessun posto.
Il registro comico, con punte esilaranti, lascia spazio alla poesia del voler essere grandi a tutti i costi. Guardando prima con sospetto tutto quello che è nuovo, per poi avvicinarsi piano piano e poi abbandonarsi all’ebbrezza del nuovo. E se per esserci bisogna spintonare, vabbene anche questo e alla fine, vabbene anche l’attesa di una corriera che per loro non arriverà mai.